Quando il lavoro diventa una dipendenza

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Quando il lavoro diventa una dipendenza

Spesso ci si lamenta del poco tempo libero lasciato da una routine asfissiante di lavoro e incombenze quotidiane. 

In verità, la tendenza a dividersi in mille impegni è diventata per molti, stando a recenti ricerche, non solo un’abitudine, ma addirittura un’esigenza. Quando infatti si riesce ad ottenere davvero del tempo a propria disposizione, spesso si avverte la necessità di riempirlo di attività, trovando subito qualcosa da fare. Non si tratta di energia e di entusiasmo, ma del bisogno di distrarsi dai propri pensieri e dalle proprie emozioni attraverso compiti pratici, che impediscano di mettersi a contatto con sé stessi. 

In psicologia, questa tendenza viene chiamata “bulimia psichica” e consiste nel rifuggere ad ogni costo sensazioni come la noia e l’attesa. Spesso, infatti, il lavoro o gli impegni diventano un rifugio e una distrazione da emozioni che si preferisce non sentire, come la depressione, l’ansia, il senso di inadeguatezza. Nel 1971, Oates ha addirittura coniato il termine “workaholism” per indicare il bisogno irrefrenabile di tenersi occupati con la propria professione, riducendo drasticamente il tempo libero, le attività sociali e quelle familiari. Questa condizione, attualmente sottovalutata e poco conosciuta, è in realtà grave quanto una dipendenza da sostanze ed espone a pesanti rischi sia fisici che psicologici a causa dei ritmi frenetici auto-imposti. In Giappone, dove il fenomeno è più conosciuto, non è infrequente sentir parlare di Karoshi (morte per l’eccesso di lavoro) e di Karo-jisatsu (suicidio per eccesso di lavoro.)

Al di là di situazioni così gravi ed estreme, anche nella quotidianità l’assumersi mille doveri può rappresentare non tanto un’eccesso di zelo, quanto piuttosto un modo per riempire il proprio senso di vuoto, scappando da sè stessi e dai propri reali bisogni. Seppure dia l’impressione di ottenere sollievo e equilibrio, questa strategia è scorretta perchè non scaccia davvero le emozioni negative nè risolve il problema, un po’ come se si avesse il viale pieno di foglie secche e, anzichè occuparsene buttandole via, si continuasse a spazzarle e ad ammucchiarle in un angolo per evitare di guardarle. Le foglie rimarranno comunque lì e il cumulo continuerà anzi a crescere se non lo si affronta. 

Come dunque è meglio comportarsi? Questo articolo non è certo un inno alla pigrizia: coltivare i propri hobby e impegnarsi nel lavoro non è sbagliato, ma è importante che il fine sia la voglia di crescere, migliorarsi ed autorealizzarsi, non quello di tenersi occupati per non pensare a sè stessi. Stilare una lista degli obiettivi da perseguire può aiutare  allora a diventare più consapevoli dei propri scopi, nonché a raggiungerli più facilmente. Inoltre, è sempre bene curare il proprio benessere e il proprio stato emotivo: se si avverte del disagio, confidarsi con un amico o, se necessario, rivolgersi ad uno psicoterapeuta può aiutare ad affrontare e superare le difficoltà, sgombrando così per davvero il viale. 

 

  1. Oates W. (1971) Confessions of a workaholic: The facts about work addiction, New York: World.

      2. Araki, S., & Iwasaki, K. (2005). Death due to overwork (Karoshi): Causation, health service, and life expectancy of Japanese males. Japan Medical Association Journal, 48, 92–98.

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